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Stupore, decenni dopo..

Mi ricordo come fosse oggi quel giorno in cui alla Facoltà di Scienze dell’Educazione di Padova, a metà della scalinata sul muro, ho visto un pezzo di carta in cui veniva chiesto chi volesse diventare volontario nei campi nomadi, per aiutare a fare i compiti. Era stato messo da una dei volontari di Don Marco della chiesa dell’Arcella, ricordo il suo volto, era una collega di facoltà, ma non ricordo il nome. Don Marco riteneva che la fede si dovesse mostrare in strada e di sera guidava infatti i ragazzi della parrocchia anche a portare tè alle prostitute, per parlarci e chiedere come stavano. Ho telefonato e con questa ragazza ho conosciuto le famiglie dei sinti tedeschi che stavano nelle roulottes lungo la ferrovia, bambini di 10 anni di famiglie numerose, agitati, discoli e poi altri più grandi calmi, studiosi, non diversi dai loro coetanei. Lì ho visto gente onesta, che si sosteneva facendo i ferrivecchi e per la prima volta una chiesa pentecostale, sotto una tenda gente che cantava a squarciagola. Oggi ci ripenso, perchè io oggi frequento una chiesa pentecostale e canto e ballo come ho visto fare loro.

Me lo ricordo bene, quel periodo in cui camminavo nel fango dei campi cittadini per rom e sinti padovani, seguendo l’eterea bionda e determinata Elisa Bertazzo di AIZO Padova, che non aveva paura di niente e nessuno e andava incontro ai profughi rom della Serbia sfollati dalla guerra anche lungo gli argini a Vigonza. Ricordo che dicevano: sono venuto via perchè non volevo combattere, pacifisti. Me lo ricordo il mio iniziale shock nell’entrare con Simona e Eugenio nei campi comunali per quei profughi , alla periferia della città, divenuti baraccopoli di legno-kasbah autocostruite intorno a una roulotte fornita dal comune, dove all’imbrunire arrivavano loschi figuri, piccola criminalità, e poteva succedere qualsiasi cosa, e tu pensavi “…e questi bambini? Cosa vivono?”. Il campo non era una casa. O lo è stato per un po’. Bambini affidatimi nel mio tirocinio, a scuola e nel pomeriggio per i compiti a casa, difficili quando vivevano un dolore probabilmente troppo grande, problemi familiari. Ma anche gli altri, due fratellini con cui ci impegnavamo a studiare dentro un umido container. I containers dove le donne un pomeriggio le trovavi nascoste sotto una montagna di selle di bicicletta: l’azienda del marito le aveva coinvolte in un lavoro a cottimo. Le donne che si svegliavano all’alba per andare a fare le pulizie, e pesavano 40 kg per meno di un metro e mezzo ma erano forza della natura che sosteneva 2 bambini e un marito che aveva perso una gamba ma era un abile barbiere.

Ero giovane, nascondevo il mio corpo indossando jeans, maglioni ampi e anfibi, per non correre pericoli, ma ugualmente sbocciavano sentimenti (di gratitudine e affetto) di alcuni padri di famiglia che vedevano solo noi, ragazze dell’AIZO, disponibili a venire lì per aiutarli coi figli, con i servizi sanitari a testimoniare sulla fiducia a loro favore che la loro bambina col polso rotto era solo caduta ed a perorare le loro richieste all’assistente sociale che cercava di non venire mai al campo… Loro volevano scolarizzazione, trovare un lavoro e casa, come avevano in Serbia prima di partire, e molti hanno poi trovato quello che cercavano, uscendo una famiglia alla volta dai campi per integrarsi nei quartieri in un modo o nell’altro..

Con AIZO, seguendo l’alta e forte Carla Osella, siamo andati a conoscere i campi nomadi di Torino, Lecce, Roma, nei loro convegni annuali che si svolgevano fra roulottes o containers nei luoghi più disagiati, lungo i fiumi, spersi in chilometri di latifondo, campi di cemento sovraffollati di famiglie di profughi in quartieri cittadini degradati. Ho mangiato quello che mi è stato offerto, ho tenuto in braccio bambini sporchi e sconosciuti, solo perchè lo chiedevano. Ho ascoltato musica, ho trovato molto da leggere ed imparare, della cultura rom e sinta, della storia di persecuzioni, del presente di discriminazioni.

E poi i sinti veneti dei paesi padovani, madri senza mariti, con figli adolescenti agitati bulli, tensioni e problemi e tuttavia accoglienza per chi veniva ad aiutare i figli. Bambini affidati piccoli a istituzioni come quella di Badia, quando forse non si riesce più a fare altrimenti, e poi ripresi a 10 anni, miti e sbalorditi per la durezza della situazione in famiglia e nel contesto ambientale. Io non lo so se il disagio degli adulti fosse dovuto anche all’esperienza in quella realtà.

E poi a fianco dei serbi, separati da una rete, è apparsa la meravigliosa diversità dei sinti hrvati. Una grande famiglia, cittadini italiani, analfabeti dagli anziani ai bambini, liberi e orgogliosi di esserlo – voi gagè diventate miopi perchè non guardate mai lontano, mi disse un ragazzo. I capofamiglia avevano scelto di smettere di farsi sgomberare, di chiedere aiuto per potere migliorare la situazione dei propri figli. Bambini di 10-12-14 anni mai stati a scuola. Io e Simona gli abbiamo insegnato – in allegri pomeriggi di scherzi e chiacchiere – a leggere, una delle attività cui mi dedico anche oggi aiutando gli stranieri del CPIA in cui lavoro, una attività che è un tentativo di fare miracoli e di fare giustizia rispetto alle ingiustizie della vita che vede chi nasce povero essere privato di diritti fondamentali. Quando quei ragazzini hanno imparato a leggere, li abbiamo accompagnati a scuola ed abbiamo scoperto che avevano paura del “nostro mondo”… ho visto un bambino in prima il primo giorno di scuola avere una crisi di pianto cui io non sapevo porre rimedio, la maestra lo ha abbracciato a lungo e l’ha placata con pazienza, accogliendolo nella classe. Ero lì a fianco a loro, testimone, quando uscendo in fila quello stesso bambino è stato colpito da una porta che un altro bambino apriva e son arrivati furiosi mamma e papà ad accusare l’insegnante di incuria razzista verso il loro piccolo, ho mediato e siamo riusciti a fare sì che si comprendessero e il bambino non lasciasse la scuola. Ho accompagnato le sue sorelline alla scuola materna, dove per prime nella loro famiglia hanno avuto la possibilità di apprendere quei prerequisiti che facilitano l’accesso a scuola. Ho accompagnato un ragazzino in prima media ed ho visto il suo terrore di non farcela senza un supporto, quando la professoressa mi ha chiesto di lasciarlo solo in classe. Ho lavorato ad assemblare oggetti con delle adolescenti, ho accompagnato una ragazza al suo primo giorno di lavoro, in un laboratorio di tomaie, un lavoro che nemmeno io avrei saputo fare, e non ha superato il giorno di prova. Ho ascoltato il disagio di una bambina che non voleva dovere portare gli occhiali, perchè nella sua famiglia nessuno li ha mai avuti. Molti anni dopo, ho presentato al mio compagno, in una festa di quartiere, un padre di questa famiglia rom, che – come non fossero passati 20 anni – mi ha mostrato riconoscenza ed al mio compagno amicizia e intesa e con orgoglio mi ha fatto vedere i nipoti, figli di quelle bambine accompagnate alla scuola dell’infanzia, ed abbiamo chiacchierato e riso.

Prendendo il caffè dentro le roulottes dei rom hrvati io sono diventata “raklori”, “ragazzina non rom”, distinta con dolcezza dai gagè che si temono e disprezzano. Mi sono affezionata a questa loro definizione di me. Loro provavano a prendermi il portafoglio dallo zaino, solo per vedere se me ne accorgevo, per scherzare e mettere alla prova la mia prontezza e contenti poi che non ci cascassi…. Con loro, mamme e bambini, sono stata anche coinvolta in episodi imbarazzanti conclusi in ridere: uscendo da un negozio che ci aveva accolto con antipatia, ho visto spuntare da sotto un’ascella di donna un pacchetto di wurstel.. che ci siamo mangiati, poi, certo. Con Ada, zia anziana e malata, che ho accompagnato ad una visita in ospedale sono stata accusata da una suora furiosa di essere anch’io una mendicante, mi ha urlato “vai a lavorare, tu così giovane, invece di chiedere la carità” … a me, che stavo lavorando! E poi mi son commossa quando la sua famiglia e anche i bambini serbi l’hanno rimproverata, perchè l’imbarazzo del manghel era cosa che doveva riguardare loro, non coinvolgere me. E Ada che ridacchiava, monella. Sono stata al funerale di Ada, in una giornata di nebbia nella bassa padovana ho seguito la banda con gli ottoni che suonava musiche potenti, fino al cimitero, sentendomi onorata di partecipare a un funerale così diverso dai nostri.

E poi sono partita per l’Erasmus in Spagna. Oviedo, nel nord. Con i volontari della Caritas ed una giovane e determinata assistente sociale sono andata a visitare persone in baracche peggiori di quelle dei campi di Padova, gitani con problemi di tossicodipendenza, che andavano a raccogliere nei prati lumache per venderle. Sono stata a parlare con leader di associazioni gitane, nella chiesa pentecostale di Gijòn ho ascoltato canti gioiosi a Dio mentre aspettavo chi dovevo incontrare. Sono stata a Leòn e son salita incoscientemente sulla moto di un gitano anziano che mi ha saggiamente accompagnato a visitare un asilo di una associazione romanì e poi ho pure perso il treno ed aspettato mattina nella stazione di Leòn insieme ad altri viaggiatori, protetti dalla polizia. Ho incontrato referenti della Union Romanì a Madrid e Barcellona, non potevo arrivare fino in Andalusia dove erano più attivi, ho raccolto molti articoli di giornali sulle discriminazioni verso i gitani ed ho pagato molto di eccedenza bagaglio, al mio ritorno in Italia dopo 5 mesi, perchè avevo migliaia di pagine di documenti per la tesi. Ma poi non ho potuto far sì che fosse comparata. 6 mesi in camera a scrivere e fare tabelle per riassumere 2 anni di esperienza fra Italia e Spagna. Arduo.

Alla mia relatrice la mia tesi non piaceva, disubbidivo alle sue richieste, inesperta ed ostinata, per seguire il filo dei miei pensieri. Forse aveva ragione lei: non è stata una canonica ricerca azione. Avevo bisogno di raccontare tutto quello che avevo scoperto. Il giorno della discussione, di mattina sono stata in classe con i miei bambini: sarebbe stato assurdo essere assente per loro, nel giorno in cui andavo a raccontare alla Commissione di laurea qualcosa di loro e fatto per loro come popolo.

Ricordo come ero agitata andando alla Facoltà in autobus, con la mia coinquilina ad incoraggiarmi. Poi davanti a famiglia ed amici ho raccontato. Ho preso i miei punti. Non grandi complimenti. Gli amici mi hanno fatto ubriacare, mi pare mi abbiano portato un copricapo da pellerossa da indossare, tesi da riserva indiana. Sono tornata a lavorare nei campi. Finchè non è stato più possibile farlo, ho trovato un lavoro in ambito non educativo. Son tornata a studiare, fondi europei il mio nuovo interesse. Ho mantenuto contatti con qualche rom che viveva in casa, un caffè e parlare di problemi e cose positive, finché non ho anche lasciato Padova. L’Associazione Italiana Zingari Oggi ha poi pubblicato la mia tesi. Ho seguito altre strade, sono tornata a fare l’insegnante per sopravvivere e poi ho trovato la mia strada nell’insegnamento dell’italiano a stranieri, ho trovato una stabilizzazione.

Oggi, a 22 anni dalla mia discussione di laurea, una persona mi chiede se può telefonarmi. E’ Eva Rizzin. Ha conseguito un dottorato in Geopolitica all’Università degli Studi di Trieste sul fenomeno dell’antiziganismo in Europa. È cofondatrice di osservAzione, centro di ricerca-azione contro la discriminazione di rom e sinti. Nel 2008 ha partecipato, come delegata, a una missione dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) per indagare sulla violazione dei diritti umani dei rom e dei sinti in Italia. Ha collaborato con Articolo 3 Osservatorio sulle discriminazioni di Mantova, realtà impegnata nel contrasto alle discriminazioni. E’ anche una sinta. Ed ha scritto Attraversare Auschwitz. Storie di rom e sinti: identità, memorie, antiziganismo.

La telefonata, serena, dura mezz’ora o più. Lei mi racconta quello che fa e che ha scritto e chi gli ha fatto scoprire quel che ho scritto io: Leonardo Piasere, Giorgio Bezzecchi, Daniele Todeschi. Sì, sono stata contattata da alcune persone che volevano vedere parti della mia tesi (ed è stato un pretesto per riflettere) che ho pubblicato su questo blog per le loro tesi, per un po’. Mi sono offerta di aiutare e poi basta. Ma Eva mi ha lasciato a bocca aperta: se ne parla, di me, il mio nome passa di bocca in bocca su questo tema? L’antropologo Leonardo Piasere “ti ha menzionata un sacco di volte”??? !! :O

“Il tuo scritto è piaciuto tanto a noi che mastichiamo questi argomenti da anni, perchè hai avuto sguardo critico”… E poi dice questo, che mi commuove: “In quanto parte della comunità, poi, ti ringrazio. Per aver indagato e riflettuto su pratiche antizingare”….. non è stato facile, avrò anche fatto tanti sbagli e continuo a non usare termini rispettosi, forse, ma… ho la sensazione che, allora, ne è valsa la pena.

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Questa voce è stata pubblicata il 27 novembre 2021 da in viaggio, zingari.

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